Breda Mod. 30
Breda Modello 1930 | |
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Tipo | Fucile mitragliatore |
Origine | Italia |
Impiego | |
Utilizzatori | Italia Germania Repubblica Sociale Italiana Grecia Repubblica Italiana |
Conflitti | Guerra d'Etiopia Guerra civile spagnola Seconda guerra mondiale |
Produzione | |
Date di produzione | 1930 - 1943 |
Numero prodotto | oltre 30.000 |
Descrizione | |
Peso | 10,80 kg |
Lunghezza | 1,23 m |
Lunghezza canna | 520 mm |
Calibro | 6,5 mm |
Munizioni | 6,5 × 52 mm |
Azionamento | automatico con canna e otturatore rinculanti |
Cadenza di tiro | 475 colpi/min (teorico), 150 colpi/minuto (pratico) |
Velocità alla volata | 618 m/s |
Tiro utile | 800 - 900 m |
Alimentazione | Caricatore integrale da 20 cartucce, alimentato con stripper clip da 20 cartucce |
Organi di mira | fisse sul corpo, non sulla canna |
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Il fucile mitragliatore Breda Modello 30 fu in dotazione dal 1931/1932 fino al 1946 (negli ultimi 3 anni alle unità di fanteria destinate al servizio di sicurezza interno) come arma collettiva della squadra fucilieri del Regio Esercito.
Sviluppo
[modifica | modifica wikitesto]Dopo la prima guerra mondiale, negli anni venti il Regio Esercito sostituì la mitragliatrice SIA Mod. 1918 con nuove armi: la Fiat Mod. 24 e la Breda Mod. 5C vennero scelte per il ruolo di mitragliatrici leggere. Una versione della seconda, la Breda Mod. 5G, alleggerita e dotata di bipiede, venne scelta come fucile mitragliatore, preferita a un modello delle acciaierie di Terni, come anche al ZB vz. 26 cecoslovacco, dal quale poi sarebbe derivato il famoso mitragliatore britannico Bren. Dal Mod. 5G derivò direttamente il Breda Mod. 30, adottato nelle forze armate italiane nel 1930 e mantenuto in servizio fino al 1945.
Nella dottrina tattica italiana della seconda metà degli anni trenta, spiccatamente incentrata sull'aggressività della fanteria, ogni squadra di fucilieri doveva disporre di un nucleo mitraglieri che, dotato di un'arma automatica leggera quale appunto il Breda mod. 30, doveva partecipare a tutte le fasi del combattimento. Quindi l'arma automatica (fucile mitragliatore) non doveva più limitarsi ad appoggiare l'avanzata dei fucilieri o la loro ritirata da una posizione statica, ma prendere parte all'assalto insieme con essi, fin dentro e oltre le posizioni del nemico. Ciò dava alla squadra fucilieri nell'assalto un notevole incremento nel volume del fuoco erogato e quindi un aumento della capacità di offesa, in quanto non dovevano più dipendere dalle mitragliatrici pesanti collocate in postazioni fisse, ma potevano portare con sé il fucile mitragliatore il quale provvedeva al fuoco di sostegno durante i movimenti sul terreno, cosa non ottenibile da parte dei fanti armati dei lenti fucili a otturatore girevole-scorrevole.
Tale dottrina tattica era nata durante i combattimenti della prima guerra mondiale e nel 1930 era ormai ben delineata nei vertici militari di molti Paesi; e l'Italia non volle essere da meno. Tuttavia il Breda Mod. 30 fu un'arma tutt'altro che riuscita, nonostante venisse prodotta e distribuita in grandi quantità e mantenuta in servizio fino al 1945.[1]
Tecnica
[modifica | modifica wikitesto]Tecnicamente il Breda Mod. 30 è un'arma funzionale, ma complessivamente inadatta all'impiego previsto. Il suo maggior pregio era anche il suo difetto: la meccanica era precisissima, troppo per qualcosa che non deve sparare solo dentro un poligono perfettamente pulito[1][2]. Il principio di funzionamento era basato sul corto rinculo della canna solidale all'otturatore, il quale è di tipo rotante a tenoni di chiusura contrapposti. Una ghiera di acciaio blocca canna e otturatore finché una camma non la obbliga a ruotare, svincolando l'otturatore che prosegue la sua corsa all'indietro estraendo il bossolo e poi ritorna in avanti spinto dalla molla di riarmo, ripetendo il ciclo. L'arma spara a otturatore chiuso (il che non aiuta certo a dissipare il calore) e mediante un percussore lanciato. In teoria tale schema meccanico era logico e funzionale, ed era adottato da altre armi coeve, ma la Breda lo realizzò con tolleranze così ridotte che bastava un niente (sabbia, fango, gelo, ecc.) perché si inceppasse e l'arma aveva bisogno di costante manutenzione.
Si aggiunga poi che l'alimentazione delle cartucce era provvista di un meccanismo di lubrificazione delle munizioni prima di essere introdotte dall'otturatore in camera di cartuccia, al fine di favorire e aiutare l'estrazione del bossolo esploso, mediante un serbatoio di olio posto all'interno del coperchio di culatta da controllare continuamente, accorgimento del tutto singolare e superfluo che serviva solo a complicare ulteriormente le cose. In alcuni teatri operativi come quello dell'Africa settentrionale o del fronte russo, l'olio lubrificante incorporava sabbia, polvere e detriti oppure, con le temperature parecchio sotto lo zero, tendeva a solidificarsi, pregiudicando sovente l'affidabilità dell'arma.[1]
In più, l'alimentazione era a caricatori di soli 20 colpi, peraltro stranamente concepiti (non erano estraibili ma incernierati al fusto dell'arma, e andavano riempiti con apposite lastrine) il che non consentiva un'autonomia di fuoco elevata; il munizionamento impiegato era lo stesso dei fucili 91. Sul caricatore poi erano poste non meno di 3 leve di comando: una per aprirlo, un'altra a bilanciere per sganciarlo dal fusto dell'arma in cui si andava ad agganciare una volta aperto, e infine una terza per sganciarlo e rimuoverlo, lasciando uno sportellino a cerniera che si poteva poi chiudere per impedire a terra o corpi estranei di entrare all'interno dell'arma. Tutta questa complessità non presentava, all'atto pratico, alcun vantaggio e rendeva solamente l'arma costosa e complicata.[1] Le lastrine di caricamento venivano trasportate in appositi cofani di cuoio grigioverde da 16 lastrine, ed erano in lamierino d'ottone alquanto delicato e soggetto a deformazioni se non venivano maneggiate con cura.
Il tempo impiegato per caricare l'arma era poi eccessivo: Il tiratore doveva aprire il caricatore, ruotarlo in avanti, agganciarlo al manicotto della canna, inserire la lastrina contenente i 20 colpi, ritrarla poi vuota energicamente dal caricatore, sganciarlo e richiudere il tutto: eseguire tutto ciò sul campo non era sempre facile e portava a un volume di fuoco pratico piuttosto basso. Inoltre le lastrine erano delicate e facilmente danneggiabili.[3] Come se tutto questo non bastasse, la finestra di espulsione dei bossoli, sul lato sinistro dell'arma, era anche chiusa da uno sportellino scorrevole che qualora ci si dimenticasse di aprirlo, bloccava il funzionamento.
Vi erano anche altri difetti principali del Breda Mod. 30 che nel complesso, ne fecero un'arma piuttosto insoddisfacente: la mancanza di un qualsiasi appiglio o manico per il trasporto, che considerato il suo peso e le sue particolari proporzioni sarebbe stato necessario; in combattimento il tiratore doveva portarsi a braccio o sulla spalla l'arma spesso rovente; oltre a ciò, le numerose sporgenze presenti erano di notevole impaccio per il movimento tra la vegetazione, perché tendevano ad agganciarsi a tutto quello che incontravano[2].
Elementi positivi invece erano il comodo bipiede e la possibilità di cambio rapido e comodo della canna, mediante una leva di svincolo sulla sinistra dell'arma e un'impugnatura fissata alle alette di raffreddamento della canna. Purtroppo la mancanza di una maniglia di trasporto obbligava il servente ad usare i guanti per manipolare la canna rovente, rendendo le operazioni complicate e laboriose. Il calcio, in legno, presentava anche un utile calciolo in metallo a molla, che poteva essere sollevato per fungere da appoggio per la spalla.
L'alzo posteriore è a ritto e cursore, graduato da 200 a 1500 metri, posto sopra l'impugnatura; quando è abbattuto presenta la tacca da combattimento. Il mirino anteriore è a palo, protetto da due alette semilunari, posto sopra il bipiede. La sicura è collocata sulla sporgenza posteriore del castello, sopra il calcio in legno, e consiste in una levetta a bottone elastico a due posizioni: verticale (fuoco) e orizzontale (sicura). La leva di armamento è verticale, posta anch'essa sulla destra, e prevede un interessante "hold-open", cioè è possibile bloccarla in apertura tramite una leva: ciò è necessario per effettuare il cambio della canna.
Impiego operativo
[modifica | modifica wikitesto]Prodotta dal 1930, venne largamente impiegata dall'Esercito italiano in tutti i teatri di guerra fino al 1945 con risultati deludenti, questo non fermò però la produzione dell'arma dato che nel 1940 vi erano oltre 30 000 esemplari operativi. Assegnato a ogni squadra di fucilieri del Regio Esercito, Regia Marina, Arma dei Carabinieri Reali e MVSN il Breda Mod. 30 dette prova di scarsa affidabilità generale, dovuta soprattutto al sistema di lubrificazione delle munizioni ad olio, che attirava sabbia, terra e polvere, portando il fucile ad incepparsi frequentemente, specie nel deserto africano. In URSS invece il gelo bloccava spesso tale sistema, e i soldati italiani dovettero inventarsi vari stratagemmi per impedirlo.
In azione, l'arma si dimostrò molto delicata: incline all'inceppamento in difficili condizioni ambientali, con un volume di fuoco insufficiente dovuto al lento ed articolato sistema di alimentazione e necessitava di una costante manutenzione[4]. Nonostante ciò il Breda Mod. 30 continuò a essere prodotto fino alla fine della guerra, anche sotto occupazione tedesca, venendo impiegato dalla Repubblica Sociale Italiana e dalla Wehrmacht, il che comportò la ridesignazione in leichtes Maschinengewehr 099 (italien) o l.MG 099(i)[5]. Grandi quantitativi furono impiegati anche dalla Resistenza e dalle forze partigiane jugoslave di Tito, specie dopo il 1943 e la conseguente cattura di enormi quantità di materiale bellico italiano.
Dopo la fine del conflitto, il Breda mod. 30 finì nei magazzini e tutti gli esemplari furono progressivamente distrutti. Ne sopravvivono alcuni nei musei e collezioni private.
Note
[modifica | modifica wikitesto]- ^ a b c d AAVV, War Machines, Aerospace Publ., Londra 1984.
- ^ a b Armi della fanteria, collana Big Set, Ermanno Albertelli editore, a cura di John Weeks.
- ^ Firearms, an illustrated guide to small arms of the world, di Chris McNab, ISBN 978-1-4075-1607-3.
- ^ Nicola Pignato, Le armi della fanteria italiana nella seconda guerra mondiale, Ermanno Albertelli Editore, 1971, p. 31.
- ^ aavv, War Machines, Londra, Osprey Publishing, 1984.
Bibliografia
[modifica | modifica wikitesto]- Nicola Pignato, Armi della fanteria italiana nella seconda guerra mondiale, Ermanno Albertelli Editore, 1979.
Altri progetti
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