Donne di conforto

Donne di conforto coreane interrogate da soldati statunitensi dopo l'assedio di Myitkyina

Le donne di conforto[1][2][3] furono bambine, ragazze e donne costrette a far parte di gruppi creati dalle forze militari dell'Impero giapponese, composti per sfruttare le giovani vittime come schiave sessuali peggio delle prostitute.[4] La locuzione italiana, al pari di quella inglese comfort women, è una traduzione del termine giapponese ianfu (慰安婦).[5][6] Ianfu è un eufemismo che sta per shōfu (娼婦) che significa "prostituta/e".[7] I documenti relativi alla Corea del Sud affermano che non fosse una forza volontaria[8] e dal 1989 diverse donne si sono fatte avanti, testimoniando che i soldati giapponesi le avevano rapite.

Storici come Lee Yeong-Hun e Ikuhiko Hata affermano che le donne di conforto reclutate fossero volontarie.[9] Altri storici invece, basandosi sulle testimonianze di ex-reclutate e dei soldati giapponesi ancora in vita, sostennero che l'esercito e la marina giapponese furono entrambe coinvolte, direttamente o indirettamente, nella coercizione, nell'inganno e talvolta nel sequestro di giovani donne nei territori occupati dalle loro forze.[10]

La stima del numero di donne coinvolte varia, da un minimo di 20 000, citato dagli accademici giapponesi,[11] ad un massimo di 410 000 donne, citato dagli studiosi cinesi;[12] il numero esatto, tuttavia, è ancora argomento di ricerca e dibattito. Ciò di cui si è certi è che esse provenissero dalla Corea, dalla Cina, dal Giappone e dalle Filippine;[13] si sa anche che nei "centri di conforto" si sfruttassero donne provenienti anche dalla Thailandia, dal Vietnam, dalla Malesia, da Taiwan, dall'Indonesia e da altri territori occupati. Questi "centri" si trovavano in Giappone, in Cina, nelle Filippine, in Indonesia, nella Malesia Britannica, in Thailandia, in Birmania, in Nuova Guinea, a Hong Kong, a Macao e nell'Indocina Francese.[14]

Secondo varie testimonianze, le giovani donne dei paesi sotto il controllo imperiale giapponese venivano prelevate dalle loro case e, in molti casi, ingannate con promesse di lavoro in fabbriche o nell'ambiente della ristorazione. Una volta reclutate, venivano incarcerate nei "centri di conforto" e deportate in paesi a loro stranieri.[15] Uno studio del governo olandese descrive come i militari giapponesi stessi reclutassero con la forza le donne nelle Indie Orientali Olandesi.[16] Lo studio rivelò che 300 donne olandesi finirono per essere schiave sessuali dei militari giapponesi.[17]

Storia postbellica

[modifica | modifica wikitesto]

Non vi furono discussioni relative al problema delle donne di conforto fino alla chiusura dei centri, dopo la guerra di Corea. Il Giappone non ne parlò poi finché non ristabilì le relazioni con la Corea del Sud, nel 1965.

Nel 1973 Kakou Senda scrisse un libro sul sistema delle donne di conforto, concentrando l'attenzione sul ruolo giapponese. Il suo libro fu ampiamente criticato dagli storici giapponesi e coreani, poiché distorcerebbe la realtà dei fatti.[18] Tuttavia, fu la prima menzione del dopoguerra relativa al sistema della schiavitù sessuale e divenne una fonte importante per l'attivismo degli anni novanta.[19]

Nel 1974 uno studio cinematografico sudcoreano realizzò un film pornografico chiamato Chonggun Wianbu ("Corpi volontari delle donne"), in cui erano protagonisti proprio i soldati giapponesi e le donne di conforto. Il primo libro coreano sull'argomento venne pubblicato nel 1981, era però un plagio del libro scritto da Kim Il-Myeon, coreano trapiantato in Giappone.[20][21]

Nel 1989 la testimonianza di Seiji Yoshida fu tradotta in coreano. Ben presto però i giornalisti giapponesi e coreani smascherarono quella che era in realtà una truffa; tuttavia, dopo la pubblicazione, diverse donne si fecero avanti affermando di essere state sequestrate da soldati giapponesi. Nel 1996, Yoshida ammise che le sue memorie erano una sua invenzione.

In seguito a numerose testimonianze, fu emanata la dichiarazione di Kono del 1993 che confermò l'effettiva esistenza di abusi durante la guerra.[22]

Istituzione del sistema

[modifica | modifica wikitesto]

Prostituzione militare giapponese

[modifica | modifica wikitesto]

La corrispondenza militare dell'esercito imperiale giapponese mostra che l'idea di creare i "centri di conforto" aveva lo scopo di prevenire gli stupri di guerra, che avrebbero incrementato l'ostilità dei locali verso i soldati giapponesi.[11]

Data la ben organizzata ed aperta natura della prostituzione in Giappone, era logico che si dovesse organizzare una prostituzione anche per le forze militari giapponesi.[23] L'esercito giapponese istituì i centri del comfort anche per prevenire la trasmissione di malattie veneree ed intercettare lo spionaggio nemico. Secondo lo storico Yoshiaki Yoshimi, questa soluzione aggravò invece i problemi che avrebbe dovuto risolvere. Yoshimi asserisce che « [...] l'esercito imperiale giapponese aveva soprattutto timore che lo scontento covato dai soldati potesse esplodere in sommosse o rivolte. Così provvidero con le donne di conforto.»[24]

Il primo "centro di conforto" (bordello) venne istituito nella concessione giapponese di Shanghai nel 1932. Le prime donne di conforto furono prostitute giapponesi che si offrirono volontarie per questo servizio. Tuttavia, con il proseguire della campagna d'espansione giapponese, i militari nipponici si trovarono a corto di volontarie, decidendo così di sfruttare le donne che vivevano nelle zone invase.[25] Molte donne accettarono le richieste di lavoro fatte dai giapponesi per operaie o infermiere, non sapendo che sarebbero state costrette ad essere schiave sessuali.[26]

Nelle prime fasi della guerra, le autorità giapponesi reclutarono le prostitute con metodi convenzionali. Nelle aree urbane venne usata la pubblicità convenzionale, attraverso intermediari, assieme al sequestro. Sempre gli intermediari misero degli annunci sui giornali che circolavano in Giappone, Corea, Taiwan, Manciukuò e in Cina. Queste soluzioni ben presto, specialmente in Giappone, esaurirono il numero delle volontarie.[27] Il Ministero degli affari esteri resistette all'ulteriore rilascio di visti di viaggio per le prostitute giapponesi, credendo che il fatto avrebbe danneggiato l'immagine dell'Impero del Giappone.[28] I militari cominciarono così a cercare le donne di conforto al di fuori del Giappone, soprattutto in Corea e nella Cina occupata. Molte donne furono ingannate e truffate e quindi costrette ad aggregarsi ai bordelli militari.[29]

La situazione peggiorò con il proseguimento della guerra. A causa dello sforzo bellico, i militari non furono più in grado di rifornire le unità giapponesi; i militari allora si rifornirono dai locali, esigendo o saccheggiando le loro risorse. Lungo la linea del fronte, soprattutto nelle campagne dove vivevano meno persone, i militari giapponesi esigevano spesso che i governanti locali fornissero loro le donne per i bordelli. Quando la popolazione locale, specialmente i cinesi, era considerata ostile, i soldati eseguirono la Sanko sakusen ("politica dei tre tutto" - uccidi tutti, saccheggia tutto, distruggi tutto), che includeva il sequestro e lo stupro indiscriminato dei civili.[30]

L'Office of War Information degli Stati Uniti documentò le interviste a venti donne di conforto in Birmania, nelle quali si affermava che le ragazze venivano persuase con l'offerta di molti soldi, un'opportunità per pagare i debiti di famiglia, per avere un lavoro facile e la prospettiva di una nuova vita in una nuova terra, Singapore. Con queste falsità molte ragazze vennero reclutate per il servizio oltremare e pagate con un anticipo di poche centinaia di yen.[31]

Richieste d'archivio e prove

[modifica | modifica wikitesto]

Il 17 aprile 2007 Yoshiaki Yoshimi e Hirofumi Hayashi annunciarono la scoperta, negli archivi relativi al processo di Tokyo, di sette documenti ufficiali dai quali emerge che le forze militari imperiali, come la Tokeitai (polizia militare della Marina), obbligassero le donne i cui padri avevano attaccato la Kenpeitai (polizia militare dell'Esercito) a lavorare nei bordelli del fronte cinese, indocinese ed indonesiano. Questi documenti furono resi pubblici al processo per i crimini di guerra. In uno dei documenti si cita un tenente, che confessò di aver organizzato un bordello e di essersene servito egli stesso. Un'altra fonte afferma che gli uomini del Tokeitai avevano arrestato alcune donne per strada e, dopo esami medici coatti, le avevano costrette a lavorare nei bordelli.[32]

Il 12 maggio 2007 il giornalista Taichiro Kajimura annunciò di aver scoperto trenta documenti del governo olandese, che furono presentati al processi di guerra a Tokyo come prove di un caso di prostituzione forzata nel 1944, a Magelang.[33]

Nel settembre 2007 il governo sudcoreano designò Bae Jeong-ja come collaboratore pro-Giappone (Chinilpa) per gli studi sull'argomento.[34][35]

I numeri sulle donne di conforto

[modifica | modifica wikitesto]

La carenza di documenti ufficiali rese difficile stimare il totale delle donne di conforto; se vi era una documentazione, probabilmente fu distrutta dal governo giapponese alla fine della guerra, per evitare responsabilità su diversi avvenimenti.[36] Gli storici sono giunti a varie stime, studiando i documenti sopravvissuti, che indicano i movimenti di soldati in una particolare area e la variazione del numero donne.[37] Lo storico Yoshiaki Yoshimi, che dedicò il primo studio accademico che mise in luce l'argomento, stimò il numero totale tra le 50 000 e le 200 000 donne.[11]

Basandosi su questa stima, la maggior parte delle fonti mediatiche internazionali parlano di circa 200 000 donne reclutate o rapite dai soldati per servire nei bordelli militari. La BBC cita "da 200 000 a 300 000" donne, mentre la Commissione internazionale dei giuristi cita le "stime degli storici di 100 000 - 200 000 donne."[38]

Paesi d'origine

[modifica | modifica wikitesto]

Secondo il professor Yoshiko Nozaki dell'Università di Buffalo, la maggior parte delle donne provenivano dalla Cina e dalla Corea.[39][40] Il professor Yoshiaki Yoshimi, dell'Università di Chuo, afferma che vi erano circa 2 000 centri, dove all'incirca 200 000 donne giapponesi, cinesi, coreane, filippine, taiwanesi, birmane, indonesiane, olandesi ed australiane furono internate.[41] Ikuhiko Hata, docente all'Università di Nihon, stima che il numero di donne che lavoravano nei quartieri di piacere erano meno di 20 000 e che esse erano giapponesi per il 40%, coreane per il 20%, cinesi per il 10% e di altri paesi per il restante 30%. Secondo Hata, il totale delle prostitute regolarmente reclutate in Giappone era solo 170 000 in tutta la guerra.[42] Altre donne venivano dalle Filippine, da Taiwan, dalle Indie orientali olandesi e da altri paesi occupati dai giapponesi.[43][44]

In ulteriori analisi dei documenti dell'Esercito Imperiale sul trattamento per le malattie veneree dal 1940, Yoshimi conclude che, se la percentuale delle donne curate riflette la percentuale generale, il 51,8% di esse erano coreane, il 36% cinesi e il 12,2 giapponesi.[24]

Ad oggi, solo una donna giapponese ha pubblicato la sua testimonianza. Nel 1971, un'ex comfort woman, costretta a lavorare per i soldati dell'imperatore a Taiwan, pubblicò le sue memorie sotto lo pseudonimo di Suzuko Shirota.[45]

Trattamento delle donne di conforto

[modifica | modifica wikitesto]

Approssimativamente i tre quarti delle donne in questione morirono e la maggior parte delle sopravvissute perse la fertilità a causa dei traumi e delle malattie trasmesse.[46] Secondo il soldato giapponese Yasuji Kaneko, « [...] le donne piangevano ma non c'importava se le donne vivevano o morivano. Noi eravamo i soldati dell'imperatore. Sia nei bordelli militari che nei villaggi, violentavamo senza riluttanza.»[47] Violenza e torture erano comuni.[48] Lo storico revisionista giapponese Ikuhiko Hata afferma che la testimonianza di Kaneko è falsa poiché testimoniò su fatti accaduti nel massacro di Nanchino del 1937, mentre lui fu arruolato nel 1940.[49]

Nel febbraio 1944 dieci donne olandesi furono prelevate a forza dai campi di prigionia a Giava da ufficiali dell'Esercito imperiale del Giappone per diventare schiave sessuali. Esse venivano picchiate e violentate sistematicamente, giorno e notte.[10][48] Essendone stata vittima, nel 1990 Jan Ruff-O'Herne testimoniò ad un comitato della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti:

«Molte storie sono state raccontate su orrori, brutalità, sofferenze e inedia delle donne olandesi nei campi di prigionia giapponese. Ma una storia non fu mai raccontata, la storia più vergognosa della peggiore violazione dei diritti umani commessa dai giapponesi durante la seconda guerra mondiale: la storia delle comfort women, le jugun ianfu, e di come queste donne furono prese con la forza e contro la loro volontà, per provvedere alle necessità sessuali dell'Esercito Imperiale del Giappone. Nei cosiddetti "centri del comfort", sono stata sistematicamente picchiata e violentata giorno e notte. Anche i dottori giapponesi mi stupravano ogni volta che visitavano i bordelli per visitarci a causa delle malattie veneree[10][48]»

Nella loro prima mattina al bordello, furono scattate delle foto a Jan Ruff-O'Herne e ad altre donne; le foto furono esposte nella sala d'attesa del bordello in modo che gli ospiti potessero scegliere prima la ragazza. Per i quattro mesi successivi le ragazze furono violentate e picchiate giorno e notte, e quelle che rimanevano incinte erano costrette ad abortire. Dopo questo periodo le ragazze furono spostate al campo di Bogor, nell'ovest di Giava, dove furono riunite alle loro famiglie. Questo campo era esclusivo per le donne che facevano parte dei bordelli militari e i giapponesi le avvertirono che se parlavano di ciò che era loro accaduto le avrebbero uccise assieme alle loro famiglie. Diversi mesi dopo la O'Herne fu trasferita in un campo di Batavia, che fu liberato il 15 agosto 1945.[50][51][52]

Gli ufficiali giapponesi coinvolti furono in qualche modo puniti dalle autorità giapponesi al termine della guerra.[53] Dopo la fine delle ostilità, undici ufficiali giapponesi furono ritenuti colpevoli e uno di essi fu condannato a morte della Corte per i crimini di guerra in Batavia.[53] La corte ritenne che la colpa di chi abusò delle donne fu di aver violato l'ordine dell'esercito imperiale di reclutare solo donne volontarie.[53] Le vittime di Timor Est testimoniarono che esse furono costrette alla schiavitù anche se non ancora in età per avere il ciclo mestruale. I testimoni affermano che queste ragazze pre-adolescenti furono ripetutamente violentate dai soldati giapponesi[54] e coloro che si rifiutarono furono uccise.[55][56]

Hank Nelson, professore emerito della Divisione di ricerca del Pacifico asiatico all'Università Nazionale Australiana, scrisse riguardo ai bordelli creati dai giapponesi a Rabaul, nella Papua Nuova Guinea durante la seconda guerra mondiale. Nei suoi scritti, Nelson cita il diario di Gordon Thomas, un soldato prigioniero di guerra a Rabaul. Thomas scrisse che le donne che lavoravano nei bordelli « [...] erano al servizio di venticinque-trentacinque uomini al giorno» e che erano « [...] vittime della tratta di schiavi dei musi gialli.»[57]

Nelson cita inoltre Kentaro Igusa, un chirurgo della Marina giapponese, distaccato a Rabaul. Igusa scrisse nelle sue memorie che le donne continuavano il loro lavoro nonostante infezioni e gravi disagi, anche se "gridavano e imploravano aiuto".[57]

Durante la seconda guerra mondiale, il regime del Giappone imperiale creò, in Corea, un sistema di prostituzione del tutto simile a quello creato in altre parti della sfera di co-prosperità della Grande Asia orientale. Agenti coreani, uomini della polizia militare e militari ausiliari coreani furono coinvolti nell'organizzazione delle donne di conforto.[58] Chong-song Pak scoprì che « [...] i coreani sotto il comando giapponese divennero pienamente acculturati come attori nel gestire il sistema di prostituzione, che venne trapiantato nel loro paese dagli stati coloniali».[59]

Dopo la sconfitta, i militari giapponesi distrussero molti dei documenti per paura di essere perseguiti per i crimini di guerra.[60]

Alcuni documenti furono ritrovati nel 2007 da Yoshiaki Yoshimi e Hirofumi Hayashi.[32]

Scuse e indennizzi

[modifica | modifica wikitesto]
Yangon (Birmania), 8 agosto 1945. Una ragazza cinese di uno dei "battaglioni del comfort" viene intervistata da un ufficiale alleato.

Nel 1965 il governo giapponese pagò 364 milioni di dollari al governo coreano come indennizzo per tutti i crimini di guerra, incluse le ferite procurate alle donne di conforto.[61] Nel 1994 il governo giapponese creò il Fondo Donne Asiatiche per distribuire compensazioni supplementari a Corea del Sud, Filippine, Taiwan, Paesi Bassi e Indonesia.[62] Ad ogni sopravvissuta fu consegnata una scusa ufficiale dall'allora primo ministro del Giappone Tomiichi Murayama, in cui si può leggere: «Come primo ministro del Giappone, io dunque rinnovo le mie più sincere scuse e il [mio più sincero] rimorso a tutte le donne che furono sottoposte ad immensurabili e dolorose esperienze e [che] soffrirono ferite fisiche e psicologiche incurabili nel ruolo di donne di conforto.»[63] Il fondo fu chiuso il 31 marzo 2007.[64]

Tre donne coreane intentarono causa al Giappone nel dicembre del 1991, all'incirca nel periodo del 50º anniversario dell'attacco di Pearl Harbor, chiedendo un risarcimento per la prostituzione forzata. Esse consegnarono dei documenti ritrovati dal professore e storico Yoshiaki Yoshida, che erano stati archiviati al Ministero della Difesa giapponese, dopo che le truppe americane li avevano restituiti al Giappone nel 1958.[65] Successivamente, il 14 gennaio 1992 il portavoce del governo giapponese, Koichi Kato, rilasciò una scusa ufficiale in cui affermò che «Noi non possiamo negare che l'ex esercito giapponese ebbe un ruolo nel sequestro e nella detenzione di "ragazze del comfort" e vogliamo esprimere le nostre scuse e [la nostra] contrizione».[65][66][67] Tre giorni dopo, il 17 gennaio 1992, ad una cena offerta dal presidente sudcoreano Roh Tae-woo, il primo ministro giapponese Kiichi Miyazawa affermò: «Noi giapponesi dovremmo per primi richiamare la verità sul tragico periodo in cui le azioni giapponesi inflissero sofferenze e cordoglio al vostro popolo. Non dovremmo mai dimenticare il nostro rimorso su tutto ciò. Come primo ministro del Giappone, voglio esprimere nuovamente il mio rimorso su queste gesta e fare le mie scuse al popolo della Repubblica di Corea.» Il primo ministro ripeté le sue scuse il giorno seguente prima dell'Assemblea Nazionale della Corea del Sud.[68][69] Il 28 aprile 1998 i giudici giapponese decretarono che il Governo dovesse indennizzare le donne con 2 300 dollari ciascuna.[70]

Nel 2000 si riunì a Tokyo il Tribunale internazionale delle donne per i crimini di guerra che, nella sentenza emessa l'anno seguente, condannò simbolicamente l'imperatore Hirohito, altri nove alti ufficiali e lo stesso Stato giapponese per crimini contro l'umanità[71]

Nel 2007 le schiave sessuali sopravvissute vollero una scusa ufficiale dal governo giapponese. Shinzō Abe, il primo ministro dell'epoca, affermò, il 1º marzo 2007, che non vi erano prove che il governo giapponese avesse tenuto schiave sessuali, anche se il governo aveva già ammesso, nel 1993, l'uso di bordelli. Il 27 marzo il parlamento giapponese espresse una richiesta ufficiale di scuse.[72] Il triste fenomeno non fu mai dimenticato dalla Corea ed è uno dei motivi cui può essere fatta risalire la rivalità tra i due Stati asiatici e l'inizio della guerra commerciale tra Giappone e Repubblica di Corea del 2019.[73]

Lo storico Ikuhiko Hata stimò che il numero delle donne di conforto fosse stato all'incirca tra 10 e 20 000 donne.[11] Hata scrisse che nessuna delle donne di conforto fu reclutata con la forza.[74] Alcuni politici giapponesi affermano che le testimonianze delle ex donne di conforto sono inconsistenti e inverosimili, quindi non valide.[75]

Un libro satirico, Shin Gōmanism Sengen Supesharu - Taiwan Ron (新・ゴーマニズム宣言SPECIAL 台湾論), dell'autore giapponese Yoshinori Kobayashi, ritrae le donne in kimono mentre fanno la fila per firmare l'arruolamento prima dei soldati stessi. Il libro di Kobayashi contiene un'intervista con l'industriale taiwanese Shi Wen-long, che afferma che nessuna donna venne costretta ad arruolarsi e che lavoravano in condizioni igieniche migliori in confronto alla classica prostituzione, poiché l'uso di preservativi era obbligatorio.[76]

Vi fu una controversia riguardante la società di radiodiffusione pubblica giapponese all'inizio del 2001. Essa riguardava la diffusione di notizie relative alla sentenza del "Tribunale internazionale delle donne per i crimini di guerra sulla schiavitù sessuale dei militari giapponesi" "tribunale di opinione" (minshu hotei) che si riunì a Tokyo nel 2000, che vennero pesantemente modificate per riflettere una visione revisionista.[77]

  1. ^ Matteo Sacchi, "Ecco le violenze giapponesi contro le donne coreane", su ilGiornale.it, 4 maggio 2018. URL consultato il 10 maggio 2022.
  2. ^ Clara Iatosti, Eravamo "di conforto", nei bordelli giapponesi: violentate e poi nascoste. Non dimenticateci più, su 27esimaora.corriere.it. URL consultato il 10 maggio 2022.
  3. ^ Nuova tensione Giappone-Corea Sud su 'donne conforto' - Asia, su ANSA.it, 6 gennaio 2017. URL consultato il 29 ottobre 2019.
  4. ^ Soh 2001, p. 215.
  5. ^ (EN) Robert McKellar, Target of Opportunity & Other War Stories, AuthorHouse, 2011, p. 189, ISBN 1-4634-1656-3.
  6. ^ Soh 2009, p. 69.
  7. ^ (JA) Nobukatsu Fujioka, Attainder of modern history, Tokuma Shoten, 1996, p. 39.
  8. ^ Soh 2009, p. 159.
  9. ^ (EN) Ikuhiko Hata, No organized or forced recruuitment: misconceptions about comfort women and the japanese military (PDF), su hassin.sejp.net. URL consultato il 15 dicembre 2008 (archiviato dall'url originale il 4 settembre 2008).
  10. ^ a b c Onishi 2007.
  11. ^ a b c d Asian Women's Fund, p. 10.
  12. ^ Rose 2005, p. 88.
  13. ^ (EN) Jone Johnson Lewissito=Thought.Co, History of the Comfort Women of World War II, su thoughtco.com. URL consultato il 10 maggio 2022.
  14. ^ Reuters 2007.
  15. ^ Yoshimi 2000, pp. 100-101, 105-106, 110-111;
    Fackler 2007;
    BBC, 2.3.2007;
    BBC, 8.3.2007.
  16. ^ Ministerie van Buitenlandse zaken, 1994, pp. 6-9, 11, 13-14.
  17. ^ (EN) Dutch bill urges compensation for 'comfort women', su China Daily, 22 novembre 2007. URL consultato il 10 maggio 2022.
  18. ^ (JA) 韓国挺身隊問題対策協議会・挺身隊研究会 (編)『証言・強制連行された朝鮮人軍慰安婦たち』 明石書店 1993年
  19. ^ Soh 2009, p. 148.
  20. ^ Soh 2009, p. 160.
  21. ^ The comfort women (Yeojajeongsindae) (1974), su kmdb.or.kr. URL consultato il 15 febbraio 2013 (archiviato dall'url originale il 19 maggio 2007).
  22. ^ Kono 1993.
  23. ^ Hicks 1997.
  24. ^ a b (EN) ‘Comfort Women Used to Prevent Military Revolt During War’, su koreatimes.co.kr, 30 novembre 2007. URL consultato il 10 maggio 2022. Ospitato su Korea Times..
  25. ^ Mitchell 1997.
  26. ^ Horn 1997.
  27. ^ Yoshimi 2000, pp. 100–101, 105–106, 110–111;
    Hicks 1997, pp. 66-67, 119, 131, 142-143;
    Ministerie van Buitenlandse zaken, 1994, pp. 6-9, 11, 13-14.
  28. ^ Yoshimi 2000, pp. 82-83;
    Hicks 1997, pp. 223–228.
  29. ^ Yoshimi 2000, pp. 101-105, 113, 116-117;
    Hicks 1997,  pp.e 8-9, 14;
    Clancey 1948, p. 1135.
  30. ^ Fujiwara 1998;
    Himeta 1996;
    Bix 2000.
  31. ^ Yorichi 1944.
  32. ^ a b Yoshida, 18.4.2007.
  33. ^ Japan Times, 12.5.2007.
  34. ^ Bae 2007.
  35. ^ (JA) 宋秉畯ら第2期親日反民族行為者202人を選定, in JoongAng Ilbo, 17 settembre 2007 (archiviato dall'url originale il 6 febbraio 2009).
  36. ^ (EN) Burning of Confidential Documents by Japanese Government, case no.43, serial 2, International Prosecution Section vol. 8;
    Clancey 1948, p. 1135;
    Yoshimi 2000, p. 91;
    Bix 2000, p. 528;
    Drea 2006, p. 9.
  37. ^ Nakamura 2007.
  38. ^ BBC, 8.12.2000;
    Irish Examiner, 8.3.2007;
    AP 2007;
    CNN, 29.3.2001.
  39. ^ Nozaki 2005;
    Dudden 2006.
  40. ^ BBC, 8.12.2000;
    Soh 2001;
    Horn 1997;
    Gamble e Watanabe 2004, p. 309.
  41. ^ Yoshimi 2000, pp. 91, 93.
  42. ^ Hata 1999;
    Drea 2006, p. 41.
  43. ^ Soh 2001.
  44. ^ Digital Chosunibuto, 19.3.2007;
    Moynihan 2007.
  45. ^ China Daily, 6.7.2007.
  46. ^ (EN) Anne-Marie de Brouwer, Supranational Criminal Prosecution of Sexual Violence, Intersentia, 2005, p. 8, ISBN 90-5095-533-9.
  47. ^ Tabuchi 2007.
  48. ^ a b c O'Herne 2007.
  49. ^ (JA) 熊谷 伸一郎, 金子さんの戦争―中国戦線の現実, リトルモア, 2005, ISBN 978-4-89815-156-3.
  50. ^ (EN) Jan Ruff-O'Herne, Talking Heads - Jan Ruff O'Herne, su abc.net.au, 23 febbraio 2009 (archiviato dall'url originale il 10 aprile 2012).
  51. ^ (EN) Comfort women, su Australian War Memorial (archiviato dall'url originale il 27 settembre 2013).
  52. ^ (EN) Australian sex slave seeks apology, in The Sydney Morning Herald, 13 febbraio 2007. URL consultato il 10 maggio 2022.
  53. ^ a b c (JA) 日本占領下インドネシアにおける慰安婦 (PDF). URL consultato il 23 marzo 2007 (archiviato dall'url originale il 28 giugno 2007).
  54. ^ Hirano 2007.
  55. ^ Coop 2006.
  56. ^ (KO) 일본군 위안부 세계가 껴안다-1년간의 기록, su KBS, 25 febbraio 2006.
  57. ^ a b Nelson 2007.
  58. ^ (EN) Tim Brook, Collaboration: Japanese Agents and Local Elites in Wartime China, Cambridge, Harvard University Press, 2005, pp. 1-13, 240-48.
  59. ^ (KO) Chong-song Pak, Kwollok kwa maech'un [Potere e prostituzione], Seoul, In'gansarang, 1996.
  60. ^ Yoshimi 2000, pp. 1135-1136.
  61. ^ (EN) Chosun Ilbo, Seoul Demanded $364 Million for Japan's Victims, su english.chosun.com, 17 gennaio 2005 (archiviato dall'url originale il 6 settembre 2008).
  62. ^ (EN) Establishment of the AW Fund, and the basic nature of its projects, su Asian Women's Fund Online Museum. URL consultato il 10 maggio 2022.
  63. ^ Asian Women's Fund 1996.
  64. ^ (EN) Closing of the Asian Women's Fund, su Asian Women's Fund Online Museum. URL consultato il 10 maggio 2022.
  65. ^ a b (EN) David E. Sanger, Japan Admits Army Forced Koreans to Work in Brothels, in The New York Times, 14 gennaio 1992. URL consultato il 27 gennaio 2012.
  66. ^ (EN) Japan Apologizes for Prostitution of Koreans in WWII, in Los Angeles Times, Associated Press, 14 gennaio 1992. URL consultato il 27 gennaio 2012.
  67. ^ (EN) Japan makes apology to comfort women, in New Straits Times, Reuters, 14 gennaio 1992. URL consultato il 27 gennaio 2012.
  68. ^ (EN) Japanese Premier Begins Seoul Visit, in The New York Times, 17 gennaio 1992. URL consultato il 27 gennaio 2012.
  69. ^ (EN) Japan Apologizes on Korea Sex Issue, in The New York Times, 18 gennaio 1992. URL consultato il 27 gennaio 2012.
  70. ^ (EN) Japan Court Backs 3 Brothel Victims, in The New York Times, 28 aprile 1998. URL consultato il 27 gennaio 2012.
  71. ^ Gini 2011, p. 109.
  72. ^ (EN) Dan Fastenberg, Top 10 National Apologies: Japanese Sex Slavery, in Time, 17 giugno 2010 (archiviato dall'url originale il 18 luglio 2013).
  73. ^ Stefano Carrer, Corea-Giappone, guerra commerciale tra antichi rancori, in Il Sole 24 ore, 15 agosto 2019. URL consultato il 12 settembre 2019.
  74. ^ Hata 1999, p. 16.
  75. ^ Washington Post, 14.6.2007.
  76. ^ Landler 2001.
  77. ^ Yoneyama 2002.

Documenti ufficiali

[modifica | modifica wikitesto]

Nazioni Unite

[modifica | modifica wikitesto]

Governo giapponese

[modifica | modifica wikitesto]

Governo dei Paesi Bassi

[modifica | modifica wikitesto]
  • (NL) Ministerie van Buitenlandse zaken, Gedwongen prostitutie van Nederlandse vrouwen in voormalig Nederlands-Indië [Enforced prostitution of Dutch women in the former Dutch East Indies], vol. 23607, Handelingen Tweede Kamer der Staten-Generaal [Hansard Dutch Lower House], 24 gennaio 1994, ISSN 0921-7371 (WC · ACNP).

Governo degli Stati Uniti

[modifica | modifica wikitesto]

Articoli di giornale

[modifica | modifica wikitesto]

Voci correlate

[modifica | modifica wikitesto]

Altri progetti

[modifica | modifica wikitesto]

Collegamenti esterni

[modifica | modifica wikitesto]
Controllo di autoritàThesaurus BNCF 63235 · LCCN (ENsh93000362 · BNF (FRcb13771018j (data) · J9U (ENHE987007544222505171 · NDL (ENJA00563875