L'arpa birmana

L'arpa birmana
Shōji Yasui in una scena del film
Titolo originaleBiruma no tategoto
Paese di produzioneGiappone
Anno1956
Durata116 min
Dati tecniciB/N
Genereguerra, drammatico
RegiaKon Ichikawa
SoggettoMichio Takeyama (romanzo)
SceneggiaturaNatto Wada
ProduttoreMasayuki Takaki
FotografiaMinoru Yokoyama
MontaggioMasanori Tsujii
MusicheAkira Ifukube
ScenografiaTakashi Matsuyama
Interpreti e personaggi
Doppiatori italiani

L'arpa birmana (ビルマの竪琴?, Biruma no tategoto) è un film del 1956 diretto da Kon Ichikawa, basato su un romanzo per bambini omonimo di Michio Takeyama.

«Rossi come il sangue sono i monti e le terre della Birmania.»

Birmania, luglio 1945: un gruppo di soldati giapponesi in ritirata nella giungla tenta di raggiungere il confine con la Thailandia. Il giovane Mizushima, per tenere alto il morale dei commilitoni, si fabbrica un'arpa birmana e canta motivi tradizionali della propria terra; ma il tentativo di fuga non riesce e la compagnia deve arrendersi. Quando giunge la notizia della capitolazione del Giappone e della fine della guerra gli inglesi chiedono ai prigionieri di guerra giapponesi di fare arrendere un gruppo di loro compatrioti che, rifugiatisi in una caverna, hanno deciso di continuare a combattere, e il suo comandante affida la missione a Mizushima. Quando tenta di spiegare al comandante dei combattenti asserragliati nella caverna che, scaduto il termine imposto dagli Alleati, la caverna stessa verrà bombardata, il soldato viene trattato da vigliacco e da traditore, e allo scadere dell'ultimatum tutti i soldati muoiono sotto il fuoco dell'artiglieria.

Solo Mizushima sopravvive, ferito, ma un monaco buddista lo raccoglie e lo cura, dandogli una lezione di umanità; egli allora decide di non ricongiungersi con i commilitoni e di diventare bonzo, per dare onorevole sepoltura ai moltissimi e insepolti corpi dei compatrioti morti. Quando i commilitoni lo rivedono e lo riconoscono, gli chiedono di tornare con loro, ma egli imbraccia l'arpa e intona il "canto dell'addio". Mizushima lascia ai compagni anche una lettera di addio, che contiene queste parole:

«Ho superato i monti, guadato i fiumi, come la guerra li aveva superati e guadati in un urlo insano. Ho visto l'erba bruciata, i campi riarsi... perché tanta distruzione caduta sul mondo? E la luce mi illuminò i pensieri. Nessun pensiero umano può dare una risposta a un interrogativo inumano. Io non potevo che portare un poco di pietà laddove non era esistita che crudeltà. Quanti dovrebbero avere questa pietà! Allora non importerebbero la guerra, la sofferenza, la distruzione, la paura, se solo potessero da queste nascere alcune lacrime di carità umana. Vorrei continuare in questa mia missione, continuare nel tempo fino alla fine.»

Riconoscimenti

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Vinse il Premio San Giorgio alla 17ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, nel 1956, quando non fu assegnato il Leone d'oro.[1] Fu nominato all'Oscar al miglior film straniero, battuto da La strada di Federico Fellini.

Nel 1985[2] lo stesso Ichikawa ne presentò un remake a Venezia.[1]

Il filosofo Aldo Capitini, nel suo saggio La compresenza dei morti e dei viventi (1966), ha scritto che «religioso indubbiamente è nell'Arpa birmana il contrasto tra il piacevolissimo ritorno dei reduci alle cose semplici e quotidiane della vita e la missione di chi resta, solo e piangente, a seppellire i soldati morti».[3]

Per il critico cinematografico Leo Pestelli si tratta "senza dubbio un film di tutta nobiltà che se non tocca i vertici della poesia in molti punti ci si accosta. Lento ma senza vuoti, accorato ma non piagnucoloso, ha un modo carezzevole di condannare la guerra, infinitamente più efficace di tante cariche frontali".[4]

Secondo il Dizionario del cinema di Fernaldo Di Giammatteo, il film affronta il tema della pietà spinta all'estremo, fin quasi alla follia e all'infatuazione.[5] Per il Farinotti, invece, l'opera «stempera le visioni degli orrori della guerra in una sorta di contemplazione assorta e ieratica. È forse il film più pacifista sul conflitto mondiale degli ultimi quarant'anni, venato di una tristezza infinita che accomuna cristianamente amici e nemici».[6]

Il Morandini parla di «poema lirico il cui pacifismo affonda le sue radici nella coscienza religiosa dell'uomo e in un sentimento panteistico. Qua e là prolisso nella solenne lentezza del suo ritmo largo, quando affronta senza mediazioni né patetiche né estetizzanti i suoi temi di fondo raggiunge momenti di dolorosa e maestosa bellezza», con l'accompagnamento musicale di Akira Ifukube che serve da «collante» mistico, assumendo propriamente il ruolo di «"religione" cioè collegamento: tra l'uomo e il mistero, tra uomo e uomo, amico o nemico».[1]

  1. ^ a b c Laura, Luisa e Morando Morandini, Il Morandini. Dizionario dei film 2001, Zanichelli, Bologna, 2000, p. 103. ISBN 88-08-03105-5
  2. ^ Paolo Mereghetti (a cura di), XLII Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, catalogo della Mostra, Edizioni La Biennale, Venezia, 1985, pp. 26-29. ISBN 8820803267
  3. ^ Aldo Capitini, La compresenza dei morti e dei viventi, Il Saggiatore, Milano, 1966, p. 255.
  4. ^ I nuovi film della giornata, La Stampa, 30 agosto 1956
  5. ^ Fernaldo Di Giammatteo, Dizionario del cinema, Newton&Compton, Roma, 1995, p. 25.
  6. ^ Pino e Rossella Farinotti, il Farinotti 2010. Dizionario di tutti i film, con la collaborazione di Giancarlo Zappoli e Bartolomeo Corsini, Newton Compton editori, Roma, 2009, p. 169. ISBN 978-88-541-1555-2

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