Lodo Moro

Il cosiddetto «lodo Moro» fu un patto segreto di non belligeranza tra lo Stato italiano e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), movimento a sua volta membro dell'OLP; escludeva invece quello di Abu Nidal, acerrimo nemico di Arafat.

Tale accordo, che era solo verbale,[1] deve il suo nome ad Aldo Moro, ministro degli affari esteri nel governo Rumor IV. La sua esistenza affiorò «pubblicamente per la prima volta in prossimità della caduta del Muro, a partire da un'inchiesta del giudice Mastelloni su traffici d'armi tra OLP e BR»[2] e, successivamente, su di esso focalizzò i suoi lavori la Commissione parlamentare d'inchiesta sul dossier Mitrokhin.

Con tale accordo, cercato dopo la strage di Fiumicino del 17 dicembre 1973 dal ministro degli esteri Aldo Moro, l'Italia garantiva ai palestinesi - aiutati da gruppi eversivi italiani - libertà di passaggio di armi ed esplosivi sul proprio territorio nazionale; in cambio, i palestinesi garantivano di non colpirla con attentati ad eccezione dei cittadini italiani di religione ebraica e degli interessi USA e israeliani.[senza fonte].

A intavolare e guidare le trattative furono il gen. Vito Miceli (capo del SID), l'amm. Mario Casardi (successore del precedente) e, "sul campo", il colonnello dei carabinieri Stefano Giovannone[3] (capocentro del SID e poi del SISMI a Beirut), George Habbash (capo del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina), Bassam Abu Sharif (allora portavoce del FPLP e consigliere speciale di Yasser Arafat guida storica dell'OLP) e Abu Anzeh Saleh (rappresentante in Italia - con residenza a Bologna - del FPLP).

Accordi simili al lodo Moro vennero stipulati anche da altre nazioni dell'Europa occidentale, così come dalla Repubblica Popolare di Bulgaria che, all'interno del coordinamento dei Servizi di sicurezza del Patto di Varsavia, era competente per l'Italia e il Mediterraneo. Tali accordi tra i Servizi bulgari e i gruppi combattenti palestinesi sono emersi di recente a seguito del processo di desecretazione in corso.[4]

Prova documentale

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A rivelare nero su bianco che un accordo di non belligeranza ci fu è un documento ufficiale dell'allora col. Stefano Giovannone datato 16 febbraio 1978 e trasmesso il giorno seguente;[5] nel suo cablogramma, il capocentro del SID a Beirut scrive di aver avuto notizia da Habbash[6][7][8] di:

«[...] una operazione terroristica di notevole portata asseritamente programmata da terroristi europei [...]»

«[...] interlocutore habet assicuratomi che "FPLP" operera' in attuazione confermati impegni miranti ad escludere il nostro Paese da piani terroristici [...]»

Rivelazioni indirette nelle lettere dalla prigionia di Moro

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Il 16 marzo 1978 le Brigate Rosse sequestrarono Aldo Moro trucidandone la scorta.

È lo stesso Aldo Moro, durante la sua prigionia,[9][10] in una lettera datata 22 aprile 1978 e indirizzata a Luigi Cottafavi, ambasciatore fuori ruolo presso l'ONU in qualità di vicesegretario generale aggiunto, suo ex consigliere diplomatico, recapitata[10] e rinvenuta come dattiloscritto nell'ottobre 1978 nel covo brigatista di via Monte Nevoso, a Milano,[10] a scrivere:

«[...] E ciò dimenticando che in moltissimi altri paesi civili si hanno scambi e compensazioni e che in Italia stessa per i casi dei Palestinesi ci siamo comportati in tutt'altro modo. [...]»

Qualche giorno più tardi, in una missiva indirizzata al partito della Democrazia Cristiana e recapitata il 28 aprile, Moro mette nero su bianco quanto segue:

«[...] Bisogna pur ridire a questi ostinati immobilisti della D.C. che in moltissimi casi scambi sono stati fatti in passato, ovunque, per salvaguardare ostaggi, per salvare vittime innocenti. Ma è tempo di aggiungere che, senza che almeno la D.C. lo ignorasse, anche la libertà (con l'espatrio) in un numero discreto di casi è stata concessa a palestinesi, per parare la grave minaccia di ritorsioni e rappresaglie capaci di arrecare danno rilevante alla comunità. E, si noti, si trattava di minacce serie, temibili, ma non aventi il grado d'immanenza di quelle che oggi ci occupano. Ma allora il principio era stato accettato. La necessità di fare uno strappo alla regola della legalità formale (in cambio c'era l'esilio) era stata riconosciuta. Ci sono testimonianze ineccepibili, che permetterebbero di dire una parola chiarificatrice. E sia ben chiaro che, provvedendo in tal modo, come la necessità comportava, non si intendeva certo mancare di riguardo ai paesi amici interessati, i quali infatti continuarono sempre nei loro amichevoli e fiduciosi rapporti. [...]»

Successivamente, in una missiva recapitata da Sereno Freato[10] il 29 aprile[10] all'on. Flaminio Piccoli, capogruppo della DC alla Camera dei deputati, Moro scrive:

«[...] Poi c'è Miceli e, se è in Italia (e sarebbe bene da ogni punto di vista farlo venire) il Col. Giovannone, che Cossiga stima. Dunque, non una, ma più volte, furono liberati con meccanismi vari palestinesi detenuti ed anche condannati, allo scopo di stornare gravi rappresaglie che sarebbero poi state poste in essere, se fosse continuata la detenzione. La minaccia era seria, credibile, anche se meno pienamente apprestata che nel caso nostro. Lo stato di necessità è in entrambi evidente.

Uguale il vantaggio dei liberati, ovviamente trasferiti in Paesi Terzi. [...]»

Lo stesso 29 aprile[10] anche all'on. Erminio Pennacchini, presidente del Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti e sul segreto di Stato[10] viene recapitata[10] una lettera di Moro nella quale scrive:

«[...] È quindi naturale che in un momento drammatico mi rivolga a te per un aiuto prezioso che consiste semplicemente nel dire la verità. Dirla, per ora, ben chiara agli amici parlamentari ed a qualche portavoce qualificato dell'opinione pubblica. Si vedrà poi se ufficializzarla.

Si tratta della nota vicenda dei palestinesi che ci angustiò per tanti anni e che tu, con il mio modesto concorso, riuscisti a disinnescare. L'analogia, anzi l'eguaglianza con il mio doloroso caso, sono evidenti.

Semmai in quelle circostanze la minaccia alla vita dei terzi estranei era meno evidente, meno avanzata.

Ma il fatto c'era e ad esso si è provveduto secondo le norme dello Stato di necessità, gestite con somma delicatezza. Di fronte alla situazione di oggi non si può dire perciò che essa sia del tutto nuova. Ha precedenti numerosi in Italia e fuori d'Italia ed ha, del resto, evidenti ragioni che sono insite nell'ordinamento giuridico e nella coscienza sociale del Paese. Del resto è chiaro che ai prigionieri politici dell'altra parte viene assegnato un soggiorno obbligato in Stato Terzo.

Ecco, la tua obiettiva ed informata testimonianza, data ampiamente e con la massima urgenza, dovrebbe togliere alla soluzione prospettata quel certo carattere di anomalia che taluno tende ad attribuire ad essa. È un intermezzo di guerra o guerriglia che sia, da valutare nel suo significato. Lascio alla tua prudenza di stabilire quali altri protagonisti evocare. Vorrei che comunque Giovannone fosse su piazza. Ma importante è che tu sia lì, non a fare circolo, ma a parlare serenamente secondo verità. Tra l'altro ricordi quando l'allarme ci giunse in Belgio? [...]»

Sempre in un'altra missiva recapitata anch'essa il 29 aprile al on. Renato Dell'Andro, sottosegretario al Ministero di grazia e giustizia:[10]

«[...] Ne ho fatto cenno a Piccoli e a Pennacchini ed ora lo rifaccio a te [...]

[...] quella che può sembrare una stranezza e non è e cioè lo scambio dei prigionieri politici. Invece essa è avvenuta ripetutamente all'estero, ma anche in Italia. Tu forse già conosci direttamente le vicende dei palestinesi all'epoca più oscura della guerra. Lo scopo di stornare grave danno minacciato alle persone, ove essa fosse perdurata. Nello spirito si fece ricorso allo stato di necessità. Il caso è analogo al nostro, anche se la minaccia, in quel caso, pur serissima, era meno definita. Non si può parlare di novità né di anomalia. La situazione era quella che è oggi e conviene saperlo per non stupirsi. [...]»

Ci sono inoltre altre lettere, tra cui due ulteriori versioni indirizzate alla DC (mai recapitate) e una missiva indirizzata all'on. Riccardo Misasi, presidente della Commissione giustizia della Camera dei deputati, che si ritiene recapitata ma mai divulgata[10] ritrovate come fotocopie[10] col secondo ritrovamento del memoriale Moro nel 1990,[10] all'interno del covo brigatista di Milano, in via Monte Nevoso; lettere che qui si omettono ma in cui Moro invoca un accordo per la sua libertà sulla fattispecie di quello fatto coi Palestinesi.

Fonti giornalistiche

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Riferimenti cronologici

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Voci correlate

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Collegamenti esterni

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