Obbedienza

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Obbedienza (dal latino oboedientia, derivato di oboediens -entis «ubbidiente») è un termine che si riferisce a chi esegue un ordine tramite un'azione collegata al sentimento e al comportamento proprio di chi si conforma a un comando.[1]

Il principe e l'obbedienza

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Nel Rinascimento italiano il tema dell'obbedienza è di vitale importanza per il principe che vuole governare con l'assenso del popolo. Giovanni Pontano affronterà la questione prima chiarendo nel suo trattatello De principe (1458) quali sono i doveri del buon sovrano e quindi, intorno al 1470-1472, delineerà in che consiste l'obbedienza (De obedientia) (1490) per concludere infine, questa ideale trilogia del potere politico con il trattato De fortitudine (1490).

Nel De obedientia Pontano scrive che l'innata socievolezza dell'uomo non porterebbe mai alla formazione di una società ordinata se non si sviluppasse l'obbedienza, intesa come superamento della costrizione da cui si origina soltanto il caos. È vero che l'uomo è un animale sociale che tende naturalmente a vivere in società ma poiché l'essere umano è una creatura imperfetta occorre controllare la sua tendenza al disordine[2].

Si deve all'obbedienza se la struttura sociale sopravvive in ogni forma di aggregazione dalla famiglia, al villaggio, alla città, al regno. Del resto l'obbedienza è un elemento costitutivo dello stesso essere umano quando, per evitare altrimenti la sua stessa rovina, sottomette le sue passioni all'obbedienza suggerita dalla razionalità. È vero che l'uomo spesso conosce il bene ma non basta la razionalità per metterlo in atto perché costa sacrificio e fatica agire rettamente ed allora la volontà di ben operare fallirebbe se non vi fosse la volontà sostenuta dall'obbedienza che fa da tramite tra il momento intellettivo e quello dell'azione[3]

A chi obietta che obbedire vuol dire rinunciare alla propria libertà naturale Pontano risponde che l'obbedienza è in natura come in natura è la libertà, per cui non vi può essere contrasto, almeno per coloro che vogliono essere liberi a lungo, poiché coloro che rifiutano di obbedire saranno liberi anch'essi ma per breve tempo.

Libero è colui che obbedisce alla ragione e obbedire al sovrano vuol dire obbedire alla ragione: schiavi sono coloro che non hanno leggi e vivono da barbari seguendo le passioni: chi dunque ha le leggi le deve osservare obbedendo sino alla fonte di esse che è il sovrano.[4]

Libertà e obbedienza coincidono in ogni grado della struttura sociale:

(LA)

«licet liberi nati simus, tamen et regibus, et magistratibus parendum esse, ac tum maxime lberos esse nos; cum iis maxime pareamus[5]»

(IT)

«sebbene noi siamo nati liberi proprio per questo tuttavia dobbiamo obbedire ai sovrani e ai magistrati, e anzi, allora massimamente noi siamo liberi quando a questi massimamente obbediamo»

ex obligatione salus

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Con l’avvento dello stato moderno in Europa tra il XV e il XVII secolo l’obbedienza dei sudditi al potere sovrano si presenta come presupposto e garanzia della salus populi, in funzione della quale appaiono indissolubilmente connesse la conservazione dell'istituzione statale e l’ordine e la sicurezza per i sudditi.[6].

Questa fu la tesi di fondo del pensiero politico di Thomas Hobbes. Contrariamente alla concezione aristotelica dell'uomo come "animale sociale", che tenda cioè a vivere aggregandosi in comune con gli altri, Hobbes è invece convinto che nello "stato di natura", quando non esiste ancora la società umana, ogni singolo uomo, considerato nella sua individualità corporea, come ogni corpo tende ad acquisire per sé tutto ciò che favorisce il suo movimento vitale. Si arriva così alla lotta per la predominanza dell'uno sugli altri, al bellum omnium contra omnes, la guerra di tutti contro tutti, dove ogni singolo diviene lupo per ogni altro uomo (homo homini lupus).[7]. Gli uomini dunque si distruggeranno tra loro conseguendo l'opposto di quanto la natura prescrive: l'autoconservazione. Allora sarà la natura stessa ad indicare la strada per uscire da questa guerra deleteria per tutti: essa stessa suggerirà agli uomini di addivenire ad un accordo che quindi avverrà non per un superiore ideale morale ma solo per un principio materiale, naturale di autoconservazione per il quale si stipulerà un pactum subiectionis, di assoluta e indiscutibile obbedienza, di piena soggezione ad una persona o a un'assemblea che imporranno con leggi che faranno rispettare con la forza, i diritti di natura. Lo Stato dunque nasce quando sia in grado di dare la sicurezza ma «può assolvere questo compito solo nella misura in cui sia esso stesso "al sicuro"; e la sicurezza dello stato in altro non consiste se non nell'obbedienza da parte dei consociati prestata a sua volta in cambio della sicurezza ricevuta la quale potrà esser prodotta dallo Stato solo in quanto esso sia al sicuro di poter esistere, ovvero di essere obbedito.» Quindi l'obbedienza, è la condizione prima e essenziale della sovranità moderna[8].

Secondo Max Weber

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L'obbedienza è solitamente la risposta all'esercizio del potere da parte di un'autorità. Max Weber nella definizione del potere ne ha delineato due forme: quella di controllare l'altrui comportamento tramite la minaccia o la violenza ("mero potere") e la "dominazione" che si manifesta con comandi dall'alto a cui corrispondono comportamenti di obbedienza dal basso[9]. Secondo Weber si manifestano tre tipi di obbedienza:

  • quella che si attua quasi automaticamente da parte di un soggetto che reputa se stesso caratterizzato da una sua naturale inferiorità;
  • quella di chi prima di obbedire calcola quali conseguenze negative potrebbero derivargli dal disobbedire e quali, probabilmente positive, dall'obbedire;
  • infine chi obbedisce perché attribuisce alla sua azione un dovere morale di corrispondere a un comando considerato legittimo.

La legittimità del comando può essere

  • "tradizionale", e in questo caso chi obbedisce lo fa perché considera il passato come contenitore di valori sacrali,
  • "carismatica": si obbedisce spontaneamente a un individuo dotato di facoltà eccezionali. L'obbedienza in questo caso è collegata alla docilità intesa come un comportamento che si manifesta come una volontaria disposizione a lasciarsi guidare, a sottomettersi o a obbedire a un'entità, materiale o spirituale, ritenuta superiore per effettivo potere o carisma, o nel conformare i propri agli altrui comportamenti.[10] come ad esempio accade nel rapporto maestro-discepolo.
  • "legale-razionale": l'obbedienza risponde a comandi legittimati da precise regole che giustificano il potere o è espressione di un comando dotato di intrinseca razionalità come aveva scritto Kant nella sua Critica della ragion pratica per cui la morale dell'essere razionale è tale che egli deve obbedire ad un comando (obbligatorietà) che egli stesso si è liberamente dato (libertà), in modo conforme alla sua stessa natura razionale. L'uomo che compie una determinata azione secondo il dovere morale sa che, per quanto la sua decisione possa essere spiegata naturalisticamente (anche con motivazioni psicologiche), la vera sostanza della sua morale non risiede in questa concatenazione causale ma in una libera volontà che corrisponde all'essenza razionale del suo essere uomo, in definitiva, è un essere appartenente a due mondi: in quanto dotato di capacità sensoriali appartiene a quello naturale, e pertanto è sottoposto alle leggi fenomeniche; in quanto creatura razionale, però, appartiene a ciò che Kant chiama il mondo "intelligibile" o noumeno, cioè il mondo com'è in sé indipendentemente dalle nostre sensazioni o dai nostri legami conoscitivi, e perciò in esso egli è assolutamente libero (autonomo), di una libertà che manifesta nell'obbedienza alla legge morale, all'"imperativo categorico".

Nella Chiesa cattolica

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Nella teologia cattolica l'obbedienza[11] è un valore essenziale collegato direttamente alla virtù cardinale della giustizia in quanto offre all'autorità la sottomissione che le è dovuta.

I Vangeli ci presentano la figura di Gesù Cristo obbediente al volere del Padre celeste. Per esempio, dice Gesù:

« Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. »   ( Gv 6,38, su laparola.net.)

San Paolo, parlando sempre di Gesù, lo descrive:

« obbediente fino alla morte e alla morte di croce »   ( Fil 2,8, su laparola.net.)

quindi sull'esempio di Cristo

«Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordinamento voluto da Dio.[12]»

Le parole di San Paolo sono pronunciate in un periodo in cui il giudaismo palestinese, organizzava la rivolta zelota contro Roma che si concluderà con la distruzione di Gerusalemme. Il problema dell'obbedienza allo Stato romano si poneva in quel momento non solo per i ribelli ebrei ma anche per i cristiani, molti dei quali ebrei convertiti. San Paolo risolve la questione, anche alla luce delle parole di Gesù («Date a Cesare quel che è di Cesare...»[13]) osservando come il regno di Cristo non è di questo mondo e quindi qualsiasi autorità politica può governarlo pretendendo l'obbedienza in cambio della cittadinanza romana e delle leggi.

L'obbedienza allo Stato rientrava poi in quella più ampia dell'obbedienza al Vangelo[14] poiché rispettare le leggi dello Stato voleva dire obbedire non solo a un dovere civile, come quello di pagare le tasse a Roma, ma anche a un dovere morale e religioso, come insegnava il precetto dell'amore del prossimo.

perinde ac cadaver

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Il 15 agosto del 1534, Ignazio di Loyola e altri sei studenti Pierre Favre (francese), Francesco Saverio, Diego Laínez, Alfonso Salmerón, Nicolás Bobadilla (spagnoli), e Simão Rodrigues (portoghese) si incontrarono a Montmartre, vicino a Parigi, legandosi reciprocamente con un voto di povertà, castità e obbedienza e fondando un ordine a carattere internazionale chiamato con un termine d'origine militare la Compagnia di Gesù, allo scopo di svolgere un lavoro missionario e di ospitalità a Gerusalemme o incondizionatamente in qualsiasi luogo il Papa avesse ordinato loro. Compare in quest'occasione, sia pure marginalmente, un quarto voto che si aggiunge ai soliti tre monacali: quello della "assoluta obbedienza al papa" (perinde ac cadaver) che richiama il valore militare della disciplina:

«}[...] facciamo quanto ci sarà comandato con molta prontezza, gaudio spirituale e perseveranza, persuadendoci che tutto ciò è giusto, e rinnegando con cieca obbedienza ogni parere e giudizio personale in contrario, in tutte le cose che il superiore ordina... Persuasi come siamo che chiunque vive sotto l'obbedienza si deve lasciar portare e reggere dalla Provvidenza, per mezzo del superiore, come se fosse un corpo morto ("perinde ac cadaver"), che si fa portare dovunque e trattare come più piace[15]»

Il sacrificio d'Isacco

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Nell'opera Timore e tremore Søren Kierkegaard scrive di Abramo, uomo di fede messo alla prova della scelta tra due Leggi opposte: quella etica degli uomini che impone il dovere paterno della cura a tutti i costi, sino al sacrificio di sé, della vita del figlio e la Legge di Dio che pretende che ogni limite morale venga messo da parte e che impone l'obbedienza assoluta nei confronti di Dio. Grande è la fede di Abramo obbediente a Dio «... non dubitò, non si mise a sbirciare a destra e a sinistra con angoscia, non importunò il cielo con le sue preghiere. Sapeva ch'era Dio, l'Onnipotente, che lo metteva alla prova; sapeva che si poteva esigere da lui il sacrificio più duro: ma sapeva anche che nessun sacrificio è troppo duro quando è Dio che lo vuole - e cavò fuori il coltello»[16] ma secondo la legge degli uomini Abramo è un assassino del proprio figlio: egli ora dà la morte a chi ha dato la vita. Kierkegaard pone due domande all'uomo di fede: può Abramo essere considerato "buono" per aver obbedito a Dio, quando eticamente è soltanto un assassino? Esiste un dovere assoluto di obbedienza verso Dio? Ad entrambe le questioni il filosofo danese risponde affermativamente. Infatti il rapporto di Abramo con Dio si configura nell'ambito dell'assolutezza: non è possibile per chi ha fede usare, per determinare la giusta scelta, la razionalità dialettica hegeliana che offre sempre la risolutiva sintesi: Abramo è di fronte all'aut-aut e non può che obbedire a Dio. «[....] il dovere verso Dio è assoluto, il momento etico è ridotto a qualcosa di relativo»[17] Quindi o esiste un dovere assoluto verso Dio «o altrimenti la fede non è mai stata e Abramo è perduto [....]»[18]

L'esperimento di Milgram

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Lo stesso argomento in dettaglio: Esperimento di Milgram.

«In questa versione ad uso privato, tutto ciò che restava dello spirito kantiano era che l’uomo deve fare qualcosa di più per obbedire alla legge, deve andare al di là della semplice obbedienza e identificare la propria volontà col principio che sta dietro alla legge – la fonte da cui la legge è scaturita. Nella filosofia di Kant questa fonte era la ragion pratica; per Eichmann, era la volontà del Fuhrer.[19]»

Nel 1961 dallo psicologo statunitense Stanley Milgram fu condotto un esperimento con lo scopo di studiare il comportamento di individui ai quali un'autorità scientifica ordinava di obbedire anche in conflitto con i propri valori etici e morali. L'esperimento cominciò tre mesi dopo l'inizio del processo a Gerusalemme contro il criminale di guerra nazista Adolf Eichmann. Milgram concepiva l'esperimento come un tentativo di risposta alla domanda: "È possibile che Eichmann e i suoi milioni di complici stessero semplicemente eseguendo degli ordini?"[20]. L'esperimento consisteva nel far colpire, anche dietro pressanti sollecitazioni crescenti di uno scienziato, rappresentante dell'autorità, con una scossa elettrica sempre più intensa, in realtà inesistente, chi commetteva degli errori e che fingeva di provare grandi dolori.

Nonostante i 40 soggetti dell'esperimento mostrassero di essere recalcitranti a provocare dolori su individui inermi e protestassero verbalmente, una percentuale considerevole di questi obbedì pedissequamente allo sperimentatore in vivo contrasto con i propri principi morali. Questo stupefacente grado di obbedienza, è stato spiegato in rapporto ad alcuni elementi, quali l'obbedienza indotta da una figura autoritaria considerata legittima, la cui autorità induce uno stato eteronomico, caratterizzato dal fatto che il soggetto non si considera più libero di intraprendere condotte autonome, ma strumento per eseguire ordini. I soggetti dell'esperimento non si sono perciò sentiti moralmente responsabili delle loro azioni, ma esecutori dei voleri di un potere esterno.

Disobbedienza

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La filosofia si è chiesta se l'obbedienza rappresenti di per sé un comportamento virtuoso per il quale la disobbedienza è comunque da condannare o se è lecito esprimere la propria libertà quando questa appaia ingiustamente repressa mettendo in atto la disobbedienza civile nei confronti di una legge ingiusta.

Questo problema morale appare evidente nel comportamento di Socrate di fronte alla condanna che ha ricevuto da una legge ingiusta e che quindi egli potrebbe legittimamente violare fuggendo dalla prigione dove è rinchiuso. Sarebbe errato ritenere che il comportamento di Socrate vada inteso come l'assenso a un principio di legalità, a un obbedire alle leggi sempre e comunque. Socrate invece ci spiega che, se è pur vero che le leggi che egli a suo tempo dialogando con loro aveva esaminato ritenendole giuste - e per questo egli è vissuto sempre ad Atene -ora, per il fatto che erano divenute ingiuste verso di lui, non sarebbe stato comunque moralmente corretto infrangerle con la fuga. Egli obbedirà alle leggi per non danneggiare gli ateniesi[21] che, avendolo condannato, continuano a credere di averlo fatto secondo giustizia. L'obbedienza alla legge, insegna Socrate, non è subordinato al nostro interesse particolare: essa va rispettata anche quando la si ritiene ingiusta, ma, nel contempo, è nostro dovere fare di tutto per modificarla col consenso degli altri[22]. Poiché allora il solo criterio per stabilire ciò che è giusto e ciò che non lo è, non essendoci una Giustizia a cui sempre obbedire, è quello di confrontarsi con gli altri con il dialogo.[23]

C'era infatti un solo modo di fuggire alla condanna: convincere gli ateniesi dialogando con loro ma ormai, dice Socrate, me ne manca il tempo.[24]. Come già aveva detto al processo: «E però, come vi dicevo fin da principio, sarebbe davvero un miracolo se io fossi capace di levarvi dal cuore in così breve tempo questa calunnia che vi ha messo radici così fitte e profonde.»[25]) Aggiunge poi Socrate:

«Io sono persuaso di non aver fatto mai, volontariamente, ingiuria a nessuno; soltanto, non riesco a persuaderne voi: troppo poco tempo abbiamo potuto conversare insieme. [...] Ecco la cosa più difficile di tutte a persuaderne alcuni di voi. Perché se io vi dico che questo significa disobbedire al daimon, e che perciò non è possibile io viva quieto, voi non mi credete e dite che io parlo per ironia; se poi vi dico che proprio questo è per l'uomo il bene maggiore, ragionare ogni giorno della virtù e degli altri argomenti sui quali m'avete udito disputare e far ricerche su me stesso e su gli altri, e che una vita che non faccia di cotali ricerche non è degna d'esser vissuta: s'io vi dico questo, mi credete anche meno. Eppure la cosa è così com'io vi dico, o cittadini; ma persuadervene non è facile. E d'altra parte io non mi sono assuefatto a giudicare me stesso meritevole di nessun male[26]

«L'obbedienza non è più una virtù»

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In risposta ai cappellani militari della Toscana in congedo che accusavano gli obiettori di coscienza nei confronti del servizio di leva di tradimento alla Patria, Don Milani scrisse:

«A dar retta ai teorici dell’obbedienza e a certi tribunali tedeschi, dell’assassinio di sei milioni di ebrei risponderà solo Hitler. Ma Hitler era irresponsabile perché pazzo. Dunque quel delitto non è mai avvenuto perché non ha autore. C’è un modo solo per uscire da questo macabro gioco di parole. Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto. A questo patto l’umanità potrà dire di aver avuto in questo secolo un progresso morale parallelo e proporzionale al suo progresso tecnico.[27]»

Si può e si deve trasgredire alla legge che in coscienza si giudica ingiusta ma occorre anche accettare la pena che essa prevede. «Chi paga di persona testimonia che vuole la legge migliore, cioè che ama la legge più degli altri[28]

  1. ^ Vocabolario Treccani alla voce "ubbidienza"
  2. ^ G.Pontano, De obedientia, c. 2.
  3. ^ G.Pontano, op.cit. ibidem
  4. ^ G.Pontano, op.cit., c. 37v.
  5. ^ G.Pontano, op.cit., c. 31v.
  6. ^ Ilario Belloni, Ex obligatione salus? Diritto, obbedienza, sicurezza. Percorsi della modernità, G Giappichelli Editore, 2013
  7. ^ Hobbes, Lettera dedicatoria a William Cavendish, terzo conte del Devonshire, premessa al De Cive, in: De Cive: The Latin Version Entitled in the First Edition Elementorum Philosophiae Sectio Tertia de Cive, and in Later Editions Elementa Philosophica de Cive edizione critica di Howard Warrender, Oxford, Clarendon Press, 1983, p. 73. L'espressione compare già in Plauto nell'originale detto latino: lupus est homo homini, Asinaria, a. II, sc. IV, v. 495
  8. ^ Ilario Belloni, op.cit., p.59
  9. ^ M.Weber, Economia e società, 1922
  10. ^ Vocabolario Treccani alla voce corrispondente.
  11. ^ Il "voto d'obbedienza", connessa alla docilità, è uno dei consigli evangelici, insieme alla povertà e alla castità che costituisce l'oggetto dei voti emessi dai membri degli istituti di vita consacrata (In I consigli evangelici nell'esperienza laicale)
  12. ^ Romani 13,1, su laparola.net. ss
  13. ^ cf Marco 12,17, su laparola.net.
  14. ^ cf Romani 10,16, su laparola.net.
  15. ^ Ignazio di Loyola, Costituzioni della Compagnia di Gesù, par.547
  16. ^ S.Kierkegaard, Timore e Tremore, Rizzoli, Milano 1972, p. 44.
  17. ^ Timore e Tremore, cit., p. 98.
  18. ^ Timore e Tremore, cit. p. 110.
  19. ^ Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli Editore, 2000, pp.143-144
  20. ^ Milgram, Stanley. (1974), Obedience to Authority; An Experimental View. Harpercollins (ISBN 0-06-131983-X).
  21. ^ Dicono le Leggi: «Se fuggirai così vergognosamente...facendo male a coloro a cui meno dovresti, cioè a te stesso, agli amici, alla patria» (Platone, Critone, par.XVI)
  22. ^ Dicono infatti le Leggi a Socrate che egli è in difetto perché «non hai cercato di persuaderci se non facciamo bene qualcosa» (Platone, Critone)
  23. ^ G.Giannantoni, Dialogo socratico e nascita della dialettica nella filosofia di Platone, pag.227 e segg.
  24. ^ Cioffi ed altri, I filosofi e le idee, Vol.I, Milano 2006 p.139
  25. ^ Platone Apologia di Socrate
  26. ^ Platone, Apologia, 37 a-38 c; trad. di M. Valgimigli, In Opere complete, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Bari 1971, 62-64
  27. ^ Lorenzo Milani, L'obbedienza non è più una virtù, E-text, 2013
  28. ^ Lorenzo Milani, Lettera ai giudici
  • Umberto Eco, Riccardo Fedriga, La filosofia e le sue storie: L'età contemporanea, Gius.Laterza & Figli Spa, 2015

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